Così scriveva Gianni Rossi in un volume dedicato ai fatti di Reggio e stampato per raccogliere gli atti del convegno “A vent’anni dalla rivolta di Reggio”. Quell’appuntamento lo ricordo chiaramente -avevo 16 anni-, mentre non posso avere nessun ricordo “mio” dei fatti del ’70, visto che quando il popolo reggino intraprese una delle azioni di “ribellione civile” più importanti della storia moderna, non ero ancora nato.
Si dice che la storia la scrivano i Vincitori e che i Vinti non possano scrivere di Storia. Ma nei moti di Reggio chi ha Vinto e chi ha scritto la storia? Cosa rappresenta oggi quel fermento popolare?
Quando Roberto Laruffa mi ha chiesto di scrivere un contributo per lo speciale della rivista, non ho esitato neanche un istante. Come già detto, non ho ricordi personali di quei fatti, ma questa parte di storia della nostra città mi ha sempre affascinato. Ancora oggi, quando leggo o ascolto racconti legati a quelle settimane, la mia immaginazione corre soprattutto a quel grande senso comunitario che ha legato diverse generazioni, saldando rapporti che andavano oltre l’interesse del singolo: l’obiettivo era quello di lottare per difendere i propri diritti, il capoluogo senz’altro, ma anche e soprattutto la possibilità di sviluppo.
Quindi troppo allettante l’occasione per poter esprimere il mio punto di vista, non solo su quello che la rivolta ha significato, ma soprattutto su ciò che oggi rimane di un movimento di popolo che ha assunto tutti i connotati di una vera e propria rivoluzione contro uno Stato patrigno nei confronti di una comunità intera.
Senza indugi, per diversi aspetti, ritengo che racchiudere una rivolta di popolo entro precisi steccati ideologici, sia un grande errore: un approccio simile è valido tanto per i moti di Reggio, quanto per altre campagne rivoluzionarie.
Nel ‘900 ci sono stati moltissimi fermenti rivoluzionari che hanno visto come attori principali intere popolazioni, spinte da una forte volontà di autodeterminazione e raccolte attorno a leader che con coraggio hanno rappresentato le istanze comuni, leader che sono stati spesso “colorati” politicamente: uno degli esempi più indicativi è quello di Ernesto Che Guevara, “protagonista” di diverse rivoluzioni. So di poter apparire un alieno proveniente da Marte agli occhi di tanti, ma figure come quelle del Che, storicamente mitizzate come “rosse”, hanno trovato molti sostenitori anche a destra. Non è mia intenzione etichettare nessuno, tantomeno il Che, tanto più che le mie visioni personali sono profondamente diverse, ma l’idea di un monopolio esclusivo dei rossi sulla figura del Guevara, è un falso. Infatti il Che antiamericano e antimperialista è stato anche un’icona della destra movimentista, apprezzato come guerrigliero coraggioso, combattente per la libertà e l’indipendenza. Altrettanto significativi sono stati i consensi che, anche a destra, si sono raccolti attorno alle istanze degli indiani d’America, dell’Ira, dei palestinesi e dell’Intifada, o ancora dei vietcong contro i marines.
Affrontare la rivolta di Reggio, a quarant’anni di distanza, con un approccio ideologico sarebbe un grave errore, anche perché come sta emergendo ultimamente, nonostante i partiti abbiano assunto posizioni differenti, le barricate non hanno avuto un colore politico. Quel movimento di uomini e donne, che hanno animato lunghi mesi di lotta in città, è stato trasversale e interclassista, ed ha unito i reggini, anche quelli residenti in altre regioni d’Italia, contro un potere che, a seguito dell’istituzione delle Regioni, assumeva con violenza delle decisioni che la partitocrazia dell’epoca imponeva con arroganza.
I partiti si schierarono in maniera differente, è vero. La democrazia cristiana, in grande difficoltà essendo autorevole forza governativa a tutti i livelli, ebbe il proprio uomo di punta nell’allora Sindaco Battaglia che si distinse quale uomo d’azione, mentre la sinistra, per paura o più verosimilmente perché la protesta era interclassista e quindi fuori dagli schemi della sinistra classica, decise di rimanere “fuori” dalla rivolta, prendendone le distanze a tutti i livelli. La destra, dopo un iniziale momento di imbarazzo, “sposò” la causa e i suoi uomini divennero addirittura leader della protesta: Ciccio Franco su tutti. Infine un ruolo decisamente vicino alle ragioni del popolo, va riconosciuto all’Arcivescovo e al Clero cittadino (Ferro e Nunnari su tutti).
In questo clima politico/partitico diviso, la Rai prima, e tutta la stampa poi, dimostrarono quanto l’informazione possa essere funzionale al potere ed ai partiti di riferimento (Governativi e non): etichettarono da subito la rivolta come “reazionaria e fascista”. E’ vero che la Chiesa e l’allora Msi seppero guadagnarsi la fiducia dei reggini, assieme a tanti uomini e donne che si ribellarono alle logiche partitiche centrali e locali, ma questo non significa che quella sommossa sia stata clericale o fascista. Il consenso che nel ’70 e negli anni a seguire, la destra conquistò è da ricondursi proprio al fatto che Ciccio Franco riuscì ad essere interprete di bisogni e istanze comuni. Il “popolo” seguì Franco, dentro e fuori le barricate, non per l’ideologia in cui lui credeva, ma per la battaglia civile che stava conducendo.
Non è sicuramente corretto stigmatizzare, o comunque affermare che la destra abbia sfruttato il movimento popolare per mero tornaconto politico. Non lo è per tante ragioni. Se la destra ha avuto delle colpe in riferimento alla rivolta del 1970, esse vanno individuate sicuramente negli anni a seguire. Soprattutto negli ultimi vent’anni. La colpa che personalmente posso ascrivere alla classe dirigente della mia parte politica è forse quella di aver preso spesso spunto da quelle tematiche nella dialettica politica, ma di non essere riuscita a istituzionalizzarle, o quantomeno a creare dei momenti di condivisione per le future generazioni: penso ad un museo della rivolta o ad una fondazione. Per trovare libri, film e documentari di livello, dedicati alla rivolta, dobbiamo andare indietro solo di qualche anno. E anche in questo caso, la maggior parte del lavoro è da ascriversi a singoli, perlopiù giovani.
Parlando con i miei coetanei, e in generale con i reggini degli anni ’80 e ’90, riscontro un’ignoranza pressoché totale su alcuni temi: ad esempio sanno poco o niente della grande beffa del pacchetto Colombo. Del quinto centro siderurgico di Gioia Tauro, della Liquilchimica di Saline Joniche, e ancora dell’Officina grandi riparazioni delle ferrovie, rimane veramente ben poco, se non la tanta ferraglia ed un porto che sa tanto di “vorrei, ma non posso”. La “città ribelle” ha dovuto aspettare più di vent’anni per vedere riconosciuto il proprio diritto allo sviluppo; tanto più che è servito l’aiuto dell’allora Papa Wojtyła e di un’apposita legge dello stato (D.L. 166/1989 – interventi urgenti per il risanamento e lo sviluppo della città di Reggio Calabria), che all’art. 1 afferma >.
Questa situazione ha rappresentato un terreno fertile dove per tanti, troppi anni, si è radicato ed è cresciuto sempre più un sentimento di diffidenza nei confronti della politica.
Un primo segnale di speranza è arrivato verso la fine degli anni ’90 da sinistra, con l’allora Sindaco Italo Falcomatà. Un reggino che rimarrà nella storia della città per il modo pacato di rivolgersi alla gente, inaugurando una nuova stagione politica di avvicinamento ai bisogni reali dei cittadini. Dal problema quotidiano del singolo al ripristino dell’aquila con il fascio littorio nella storica piazza del popolo (non ce la fece sic!), Falcomatà si mosse rivolgendosi a tutti, cercando di superare una diffidenza nei confronti della politica forte e radicata, sempre partendo dal presupposto che un popolo senza memoria è un popolo che non ha futuro.
Sul versante istituzionale della destra a rompere gli schemi fu proprio un giovane che, come me, non ha ricordi diretti di quei fermenti: Giuseppe Scopelliti. Da Presidente del Consiglio Regionale nel 2000 riuscì a far ultimare i lavori del palazzo del Consiglio Regionale. Da Sindaco della città, legando fortemente l’azione amministrativa con l’amore per la città “prima di tutto”, ha avviato una rivoluzione culturale che ha riacceso le speranze. Sul fronte storico, lo stesso Scopelliti ha rotto gli indugi dedicando due importanti aree del lungomare ai caduti dei moti ed al leader dei boia chi molla Ciccio Franco, dando un giusto riconoscimento ai sacrifici di un popolo. Da Presidente della Regione ripete che distorsioni e disattenzioni verso interi territori non devono più accadere.
Oggi, del fermento popolare dei fatti di Reggio, oltre ad un forte campanilismo, rimane l’amore per la nostra terra e la voglia di difenderla. Le barricate del 2010 non devono essere fatte in strada, bensì nelle sedi decisionali opportune, con lo stesso spirito che ha portato la classe politica reggina, da destra a sinistra, ad ottenere lo storico risultato del riconoscimento della Città Metropolitana. Da qui sicuramente bisogna ripartire.