Dal Corriere della Sera, a firma Massimo Franco. Non si può dire che le primarie stiano offrendo l’immagine di un Pd compatto intorno alla leadership di Pier Luigi Bersani. E la folla di aspiranti candidati a Palazzo Chigi farebbe pensare che chiunque nel centrosinistra si senta in grado di sostituire Mario Monti al governo. Ma probabilmente sono forzate entrambe le interpretazioni. Il segretario del Pd non è accerchiato da veri concorrenti, ma da una moltitudine di ambizioni, se non di velleità. E l’ipotesi che da questa gara esca un aspirante presidente del Consiglio diverso da Bersani rimane, al momento, piuttosto remota. L’unica vera sfida è quella del sindaco di Firenze, Matteo Renzi: se non altro perché è partita prima e tende a sparigliare i giochi interni.
Ma le candidature a ripetizione che sono spuntate sulla sua scia promettono di disperdere i voti e di trasformare un appuntamento ancora un po’ nebuloso in una sorta di caotico cripto-congresso. Bersani ammette che «l’affollamento sarebbe un problema, ma non ne farei un dramma: alle primarie francesi c’erano sei candidati». Come dire: alla fine emergeranno comunque quelle vere. La moltiplicazione dei premier in pectore, però, sta seminando perplessità crescenti. Il sarcasmo dell’ex ministro Giuseppe Fioroni gli fa dire che se arrivano a undici si può fare una squadra di calcio. E qualcuno teme che un’esplosione non governata delle vanità porti al collasso del partito.
Fra l’altro, non è ancora chiaro neppure se le primarie saranno aperte ad esponenti delle forze potenzialmente alleate del Pd. Il problema è stato posto da Nichi Vendola, governatore della Puglia e capo di Sinistra, ecologia e libertà (Sel). Bersani ha risposto che sì, «Nichi sarà della partita». Il risultato, però, è di mostrare un partito che appoggia Monti ma intanto formalizza anche con le primarie un’alleanza con una sinistra che si vuole liberare del presidente del Consiglio e della sua agenda di politica economica. Su questo, resta un alone di ambiguità, che nemmeno Renzi è riuscito a dissolvere: forse anche perché teme che le regole delle primarie vengano cambiate in corsa per arginarlo.
«I sondaggi cominciano a far paura a qualcuno. Ma perché – protesta – chi votava per Prodi, Veltroni o Bersani eleggeva grandi personaggi, mentre se vota me è un pericoloso reazionario?». La risposta non c’è ancora, e le elezioni politiche del 2013 si avvicinano. Il ritardo è vistoso, ma forse inevitabile. Volente o nolente, come tutti, il Pd è appeso alla riforma elettorale. Sull’attivismo e le autocandidature di queste settimane incombe tuttora la possibilità che si opti per un sistema non in grado di garantire a uno schieramento o a un partito la maggioranza sufficiente per governare; e dunque che tutte le ambizioni finiscano per rimanere tali, rendendo inutili le primarie perché il premier sarebbe scelto dopo, non prima delle elezioni.
L’insistenza di Bersani contro un ritorno al sistema proporzionale si spiega con la volontà di evitare un epilogo del genere: una coalizione di unità nazionale che Pdl e Udc si augurano, per motivi diversi. Un esito elettorale senza veri vincitori frustrerebbe infatti le ambizioni del centrosinistra. Ma nessuno è in grado di fare previsioni sui tempi e i contenuti del compromesso che si potrebbe raggiungere entro un mese in Parlamento. Il rischio è che qualunque mediazione sia percepita comunque come un passo troppo piccolo e tardivo per legittimare una classe politica sfregiata dagli scandali che spuntano negli enti locali, l’ultimo nel Lazio. Si parla di due settimane per un accordo, per poi andare alle Camere «al buio». E lì potrebbero arrivare sorprese.