L’Italia non è un paese per stranieri, per degli imprenditori disposti a investire, a portare capitali, ricchezza e lavoro qui da noi piuttosto che in Lituania o Serbia. Ci sono poche debite eccezioni come l’Ikea, che in Italia ha un florido mercato, ha interesse a restarci e a crescere, ma che trova tanti ostacoli burocratici per aprire un punto-vendita da essere costretta ad alzare la voce e a gridare al mondo intero (bella pubblicità all’estero) come sia impossibile fare impresa nel nostro paese.
Lars Petersson, numero uno del gruppo svedese in Italia, ieri ha voluto raccontare alla stampa le difficoltà nelle quali è impantanata la sua impresa, che non riesce ad aprire a Roma un megastore che darebbe lavoro a centinaia di persone. Tutto bloccato da sette anni perché “in Italia i tempi della burocrazia non sono accettabili”.
Stessa cosa era accaduta in Toscana, anche là sette anni di guai: solo dopo la minaccia-ultimatum di trasferire l’investimento in Lituania le cose sembrano avviate nella giusta direzione. Insomma, pochi investono in Italia e anche quei pochi, per farlo, devono passare le pene dell’inferno.
Il caso dell’Ikea forse si risolverà, ma l’elenco delle occasioni mancate o perdute dall’Italia per attrarre investimenti, creare lavoro e ricchezza si misurano a lenzuolate. Spesso per i “no” localistici e di piccoli gruppi organizzati (vedi il rigassificatore della British a Brindisi) oppure di gruppi antagonisti (le grandi infrastrutture). Ma più in generale per i tanti “spread” che ci tengono in coda alle classifiche: maglia nera in Europa sulla giustizia (lenta e “ingiusta”), per il peso fiscale eccessivo, per il costo dell’energia, per la produttività; agli ultimi posti per il costo del credito, per la burocrazia nell’export, per le infrastrutture.
Ancora pochi giorni fa, nel dar conto degli incontri del premier Monti con i grandi investitori americani per promuovere il nostro paese, Il Sole 24 Ore dettagliava, a fronte dei sorrisi e degli elogi ufficiali, un “dietro le quinte” di dichiarazioni imbarazzanti: scarsa fiducia nel contesto-paese e assoluta reticenza a investire in un territorio percepito come ambientalmente ostile al fare impresa.
D’altronde solo due mesi prima il Wall Street Journal aveva messo in fila “otto buoni motivi” per non investire in Italia: ai primi posti la difficoltà a licenziare, i costi contributivi, l’invadenza e onnipresenza del sindacato, la burocrazia impossibile.
Il WSJ non cita i grandi temi del costo del credito o di quello dell’energia, ma piuttosto si sofferma su lacci e lacciuoli all’impresa che potrebbero essere rimossi dal governo a costo zero e in tempi rapidi. In testa a tutto, le difficoltà di gestire i rapporti di lavoro nelle imprese, la scarsa flessibilità, la dittatura del sindacato. Ecco quel che più temono gli investitori stranieri.
Purtroppo è anche la nota dolente di un riformismo montiano partito bene con le pensioni e poi in panne con i deludenti contenuti di una pseudo-riforma del lavoro condizionata dai veti della sinistra. La quale, se vince le elezioni, minaccia di smontare anche quel che di buono c’è. Da allora poco o nulla è stato fatto dal governo per districare quel groviglio di “lacci e lacciuoli” che ci mettono i coda a tutti per attrattività degli investimenti.
La classifica di Euromo ci mette dietro la Colombia come rischio-paese per gli investimenti: ci ha sorpassati nell’ultimo anno, vorrà dire qualcosa?(ilM 04/10/2012)