L’argomento più dibattuto in questi giorni è sicuramente il progetto di riforma del lavoro del Governo Monti. In merito ho trovato veramente interessante l’articolo di Falasca Giampiero, su guida lavoro, che analizza nel dettaglio cosa potrebbe cambiare se il disegno legge sarà approvato così com’è! Buona lettura…
<<Il licenziamento si fa in tre. Nel progetto di riforma presentato dal Governo alle parti sociali, le forme di tutela contro il licenziamento ingiustificato possono seguire ben tre diversi percorsi, che si differenziano in ragione dei motivi del licenziamento. E’ ancora presto per dire se le modifiche proposte dal Governo arriveranno al traguardo, anche perché le variabili in campo sono diverse; in attesa di vedere se e come il progetto di riforma andrà avanti in Parlamento, è utile approfondire il contenuto della proposta presentata alle parti sociali, per capire quali effetti avrebbe sulla normativa vigente, ed iniziare ad elencare quali potrebbero essere i profili applicativi più critici.
La giusta causa e il giustificato motivo di licenziamento
Il primo aspetto che occorre considerare nell’esame del progetto di riforma è che non sono modificate le nozioni tradizionali di giusta causa e giustificato motivo di licenziamento. Resta quindi immutata la disciplina contenuta nell’art. 2119 c.c. Secondo la norma, la giusta causa di licenziamento si configura in presenza di una mancanza del dipendente che, valutata nel suo contenuto oggettivo oltre che nella sua portata soggettiva, in relazione alle circostanze in cui è posta in essere nonché all’intensità dell’elemento intenzionale, risulta gravemente lesiva della fiducia che il datore di lavoro deve riporre nel proprio dipendente. Quando si verifica la giusta causa, il licenziamento è consentito senza preavviso (ovvero prima della scadenza, se il contratto è a tempo determinato). Non cambia neanche la nozione di giustificato motivo soggettivo, come definita nell’art. 3 della legge n. 604/1966, che lo identifica con il notevole inadempimento del lavoratore agli obblighi inerenti la propria attività lavorativa. Infine, non cambia l’art. 3 della legge n. 604/1966, il quale prevede, accanto al giustificato motivo soggettivo, un’ulteriore ipotesi di licenziamento, nota come giustificato motivo oggettivo; tale causale di licenziamento attiene alle “ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed al regolare funzionamento di essa” (art. 3).
I presupposti del licenziamento quindi, non cambiano; quello che cambia, in misura rilevante, è la disciplina degli effetti che si verificano nel caso in cui questi presupposti risultano inesistenti.
Vediamo le novità del progetto di riforma, ripercorrendo i regimi di tutela che sono previsti per le tre tipologie di licenziamento che sono previste dalla nuova norma: discriminatorio, disciplinare, economico.
Il licenziamento discriminatorio
Il progetto di riforma è molto netto con riguardo al licenziamento di carattere discriminatorio (ipotesi in cui rientra anche il recesso in costanza di matrimonio o maternità). In tale ipotesi, non c’è discussione: a prescindere dalla dimensione dell’impresa, si applica la sanzione della nullità assoluta, e quindi il lavoratore ha diritto ad essere riammesso in servizio, oltre a vedersi pagato un risarcimento pari alle retribuzioni perse nel periodo intermedio. E la tutela si estende anche ai dirigenti, che di solito non beneficiano della reintegrazione sul posto di lavoro. Non è una vera innovazione, in quanto la legislazione vigente già sancisce, in diverse norme e con tecniche differenti, la nullità dei licenziamenti discriminatori. A tale riguardo, basta ricordare che secondo il combinato disposto dell’art. 3 della legge n. 108/1990, dell’art. 4 della legge n. 604/1966 e dell’art. 15 dello Statuto dei lavoratori, è punito con la nullità il licenziamento che, quale che sia la motivazione formalmente addotta dal datore di lavoro, sia in realtà intimato per una finalità di discriminazione politica, religiosa, sindacale, razziale, di lingua o di orientamento sessuale. L’art. 3 della legge n. 108/1990 già specificava che, in caso di licenziamento discriminatorio, si applica il regime di tutela reale, a prescindere dai requisiti dimensionali. La giurisprudenza ha arricchito questo regime riconoscendo la nullità del licenziamento fondato su un motivo illecito, di ritorsione o rappresaglia, nella misura in cui si configurano come arbitraria reazione datoriale a fronte di un comportamento legittimo posto in essere dal lavoratore o di rivendicazioni legittime avanzate dallo stesso. Vi sono poi disposizioni specifiche che sanciscono la nullità del licenziamento intimato nel periodo compreso tra il giorno della richiesta delle pubblicazioni e l’anno successivo alla celebrazione del matrimonio; questo provvedimento è affetto da nullità presumendosi, ai sensi dell’art. 35 del Dlgs n. 198/2006, ed opera oggettivamente non sussistendo in capo alla lavoratrice alcun obbligo di comunicazione del matrimonio al datore di lavoro. Parimenti, le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al termine del congedo di maternità, nonché fino al compimento di un 1 anno di età del bambino (art. 54 del Testo unico sulla maternità). In materia di adozioni e affidamenti, il divieto di licenziamento si applica fino a 1 anno dall’ingresso nel nucleo familiare in caso di fruizione del congedo di maternità e di paternità. Il divieto di licenziamento opera in connessione con lo stato oggettivo di gravidanza, e la lavoratrice, licenziata nel corso del periodo in cui opera il divieto, è tenuta a presentare al datore di lavoro idonea certificazione dalla quale risulti l’esistenza all’epoca del licenziamento, delle condizioni che lo vietavano. L’art. 54 Tu elenca una serie di casi tassativi che consentono di licenziare la lavoratrice durante il periodo di gravidanza. In particolare, il divieto di licenziamento non si applica nel caso di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro (ex art. 2119 c.c.), cessazione dell’attività dell’azienda cui è addetta, ultimazione della prestazione per la quale la lavoratrice è stata assunta o risoluzione del rapporto di lavoro per la scadenza del termine, esito negativo della prova (Ministero del lavoro circ. n. 113/1996).
Licenziamento disciplinare
Se invece il licenziamento ha carattere disciplinare arriva cioè al termine di una procedura disciplinare, avviata con le forme previste dall’art. 7 dello Statuto dei lavoratori la sanzione applicabile cambia, secondo l’esito della causa. Se il Giudice accerta che i fatti posti a fondamento del licenziamento non potevano essere qualificati come giusta causa o giustificato motivo soggettivo, il lavoratore ha diritto a una tutela solo economica, e in particolare può vedersi riconosciuto il pagamento di un’indennità di importo variabile tra le 15 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. A questa indennità non si aggiunge il ripristino del rapporto di lavoro che, anche se il recesso è stato giudicato illegittimo, viene dichiarato risolto di diritto dal Giudice. Il Giudice tuttavia non deve necessariamente procedere in tale direzione. Se accerta che il licenziamento disciplinare era illegittimo, in quanto il fatto non è stato commesso dal lavoratore oppure, anche se è stato commesso, doveva essere sanzionato con un provvedimento disciplinare meno grave del licenziamento, può scegliere di applicare la sanzione tradizionale della reintegrazione sul posto di lavoro, cui si aggiunge il risarcimento del danno in misura pari alle retribuzioni perse, ma di importo non superiore alle 12 mensilità. L’indennità deve essere commisurata tenendo conto degli altri redditi percepiti prima della reintegrazione, ed anche delle retribuzioni che il lavoratore avrebbe potuto percepire se, usando una normale diligenza, si fosse dedicato alla ricerca di una nuova occupazione. Viene in questo modo formalizzato il criterio del cd. aliunde percipiendum. In aggiunta all’indennità economica, il datore di lavoro viene condannato al pagamento dei contributivi previdenziali, in misura pari a quella che sarebbe stata dovuta per le somme spettanti a titolo retributivo; dal montante va detratto quanto percepito a titolo di ammortizzatori sociali. E’ escluso invece l’obbligo di pagamento delle sanzioni civile connesse all’omessa oppure alla ritardata contribuzione. La formulazione usata per individuare i casi in cui il Giudice può decidere di applicare la reintegrazione non è molto chiara, e quindi sarebbe opportuno distinguere meglio quando si applica la tutela meramente economica e quando invece si applica quella reale. Da notare che questo regime si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace per mancanza della forma scritta, ed a quello intimato a un dipendente malato o infortunato (art. 2110 c.c.) oppure a quello motivato dall’inidoneità fisica o psichica del lavoratore.
Licenziamento per motivi economici
La terza ipotesi prevista dal progetto di riforma è quella più interessata da modifiche, rispetto alla normativa vigente. Se il datore di lavoro licenzia per giustificato motivo oggettivo (quello che, nella ricostruzione ormai dominante, viene definito come licenziamento per motivi economici), l’eventuale sanzione contro tale provvedimento è solo di tipo economico. Pertanto, il lavoratore che impugna il licenziamento può dimostrare che non esisteva il giustificato motivo oggettivo, ma in caso di esito positivo della propria azione può ottenere solo un’indennità di importo variabile tra le 15 e le 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto. Tale indennità ha carattere omnicomprensivo ed esaurisce ogni altra forma di tutela applicabile. Il Giudice determina l’importo dell’indennità tenendo conto di alcuni elementi: le dimensioni dell’impresa, l’anzianità di servizio del lavoratore, le iniziative assunte da questo per trovare una nuova occupazione, il comportamento tenuto dalle parti nella procedura di conciliazione. Con riguardo a tale procedura, si prevede un’altra rilevante innovazione, finalizzata a stimolare le conciliazioni tra datore di lavoro e lavoratore. In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, infatti, il datore di lavoro deve notificare, prima di recedere dal rapporto, la propria intenzione al lavoratore e alla Direzione territoriale del lavoro. La comunicazione deve contenere l’esplicita manifestazione di volontà di procedere al licenziamento per motivo oggettivo, ed indicare i motivi del recesso; inoltre, è necessaria l’indicazione delle eventuali misure che si intendono adottate per assistere il lavoratore nella sua ricollocazione professionale. Una volta ricevuta la comunicazione, la Direzione territoriale convoca le parti entro 7 giorni e propone una conciliazione preventiva basata sulla risoluzione consensuale del rapporto e il riconoscimento di un’indennità economica. Per incentivare il raggiungimento dell’accordo in tale sede, la bozza di riforma prevede l’erogazione in favore del dipendente che accetta la conciliazione di un voucher da utilizzare per fruire di un servizio specializzato di outplacement. Le modalità di fruizione del voucher e il suo valore saranno definiti da un apposito decreto del Ministero del lavoro, che fisserà anche le compensazioni da riconoscere alle Agenzie per il lavoro. Nel complesso, si tratta di una normativa molto complessa, che dovrà essere verificata in sede applicativa per capire se effettivamente apporterà delle innovazioni. E’ chiaro che il datore di lavoro avrà una inevitabile tentazione di qualificare sempre come economico il licenziamento, ma tale discrezionalità dovrà tenere conto dell’approccio che avrà la giurisprudenza, che giustamente svolgerà un controllo preventivo (oggi inutile e quindi assente) sull’esatta qualificazione del licenziamento e quindi troverà dei meccanismi per contenere applicazioni elusive ella riforma.
Licenziamenti collettivi
Il progetto di riforma dovrebbe applicarsi anche ai licenziamenti collettivi, che dovrebbero essere soggetti alla stessa disciplina sanzionatoria del giustificato motivo oggettivo; quindi, anche per questi sarà escluso il diritto alla reintegrazione sul posto di lavoro. Per il resto, al pari di quanto accade con i presupposti del licenziamento individuale, dovrebbe essere confermata la disciplina che detta le condizioni di accesso alla riduzione collettiva di personale, contenuta nella legge n. 223/1991.
Disciplina applicabile alle piccole imprese
La nuova normativa non si applica alle piccole imprese, che continuano a restare soggette alla normativa sulla tutela obbligatoria già vigente. Rientrano in quest’area di tutela i datori di lavoro, imprenditori o non imprenditori, che nell’ambito dello stesso comune occupano fino a 15 dipendenti, le imprese agricole che nel medesimo ambito territoriale occupano fino a 5 dipendenti e, in ogni caso, i datori di lavoro che occupano alle proprie dipendenze fino a 60 dipendenti sul territorio nazionale. Per questi datori di lavoro, l’eventuale dichiarazione di illegittimità del licenziamento privo di giustificazione può determinare la riassunzione, e non la reintegrazione, del lavoratore; la riassunzione determina la costituzione di un nuovo rapporto di lavoro tra le medesime parti del contratto originario, illegittimamente interrotto. Inoltre, nel regime di tutela obbligatoria la scelta tra la riassunzione ed il pagamento di un’indennità risarcitoria è rimessa al datore di lavoro, al contrario di quanto avviene, nell’alveo della tutela reale, per la scelta tra reintegrazione sul posto di lavoro e percezione di un’indennità sostitutiva (scelta che l’art. 18, comma 5, rimette in capo al lavoratore).
Infine, l’indennità risarcitoria spettante al lavoratore è di importo notevolmente inferiore, in quanto nel caso in cui il datore di lavoro scelga di non riassumere il lavoratore, ma opti per il pagamento di un’indennità risarcitoria in suo favore, egli sarà tenuto a pagare una somma di importo variabile tra un minimo di due mensilità e mezzo sino ad un massimo di sei mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto (con un parziale incremento con i lavoratori che hanno anzianità lavorative molto lunghe).
Impugnazione del licenziamento
Da ultimo va esaminato l’impatto della riforma sul regime di impugnazione dei licenziamenti. L’art. 6 della legge 604/1966 pone in capo al dipendente (non dirigente), che intenda contestare la legittimità del licenziamento intimatogli, l’onere di manifestare espressamente la volontà di impugnare il recesso datoriale. Tale volontà si deve esplicare attraverso un’impugnazione scritta del provvedimento, che deve pervenire al datore di lavoro, a pena di decadenza, nel termine di 60 giorni dalla ricezione del provvedimento che dispone il licenziamento (ovvero dalla comunicazione dei motivi, ove il lavoratore ne abbia fatto richiesta). Una volta impugnato il licenziamento in via stragiudiziale, il lavoratore ha l’onere di proporre l’azione in giudizio entro i successivi 270 giorni, a pena di inefficacia dell’impugnazione originaria, come previsto dal cd. Collegato lavoro (legge n. 183/2010). Tale disciplina, secondo quanto annunciato dal Governo, dovrebbe cambiare solo per l’impugnazione dei contratti a termine; per chi vorrà impugnare il termine apposto a tali contratti, infatti, dovrebbe essere eliminato l’onere di proporre un’impugnazione stragiudiziale entro i 60 giorni dalla fine del rapporto. Questa modifica avrebbe la finalità di evitare che il lavoratore decida di non impugnare il contratto solo per il timore di non ottenere un ulteriore contratto a termine. Non sono annunciate, invece, modifiche per l’impugnazione dei licenziamenti, e quindi dovrebbe restare in vigore il sistema introdotto dal Collegato lavoro.>>